sabato 16 giugno 2018

Mansioni



La lancetta del serbatoio è al di sotto del “rosso”; lo faccio notare ad Alessandra, che non si preoccupa più di tanto:
- Una volta, in queste condizioni, ho fatto trenta chilometri. -
Appoggio, sconsolato, la testa al finestrino:
- See... -
Sono le nove di sera, la strada che percorriamo è costellata di distributori, ma gli unici “24 ORE” sono sull’ altra carreggiata.
Dopo un’inversione ad “U” al limite del ritiro della patente, affianchiamo la pompa di benzina.
Il ragazzo dalla pelle scura si avvicina sorridente, Ale gli porge le chiavi:
- Diecimila. -
Il tipo “armeggia” con il tappo del serbatoio: è decisamente in difficoltà:
Lo faccio notare ad Ale:
- Dici sempre che è difettoso, perché non scendi a dargli una mano? -
- Ma stai scherzando? E’ il suo lavoro! -
IL SUO LAVORO!?
Sono decisamente perplesso.
- Ma, poverino, cosa vuoi che ne sappia? -
Niente. Lei è assolutamente convinta che la cosa sia di sua competenza.

Il ragazzo riesce ad aprire, fa benzina e tenta di riavvitare il tappo che proprio non ne vuol sapere; dopo un po’ sollecito Ale a scendere per dargli una mano.
La scena è desolante: Ale forza, con rabbia, il tappo del serbatoio, la chiave è incastrata, l’extracomunitario la guarda con un sorriso imbarazzato; lei è ormai imbestialita, suda e impreca all’indirizzo del tappo.
Il ragazzo non ha dismesso quella maschera un po’ tesa e sorridente che ha dall’inizio della vicenda.
Scendo, lancio un’occhiata rassicurante al ragazzo e provo a richiudere il maledetto tappo del serbatoio: niente da fare.
Comincio ad innervosirmi anch’io; poi, Ale mi spintona via indelicatamente, infila il tappo con decisione, lo chiude e risale in auto.
Sorrido. Allungo mille lire al ragazzo di colore che le afferra come qualcosa alla quale aveva ormai rinunciato.
Lo saluto ed entro in macchina, chiedendomi come si sentirebbe, lui, in uno studio da commercialista.

Ale parte, un po' alterata:
- Non capisco come possano essere così incompetenti! E poi, perché gli hai dato la mancia? -
Il dubbio, che prima mi aveva solo sfiorato, è ormai una certezza!
Voglio solo una conferma:
- Con che cosa credi che campi? -
- Ma come?! Con lo stipendio, no? -
La fisso un lungo istante: non c’è un’ombra di incertezza in quello sguardo.
- Ma quale stipendio?! - E comincio a ridere.
- Lo stipendio che gli dà il benzinaio per stare lì la notte. -
Sto soffocando dalle risate, è troppo divertente per fermarla.:
- Il benzinaio, eh? -



- Certo. -
- E perché diavolo il benzinaio dovrebbe pagarlo? -
- Perché c’è un sacco di gente che rinuncia ad usare i self-service, perché non è capace o non ne ha voglia... -
E’ assolutamente irresistibile; sono piegato in due.
- Ma che hai tanto da ridere? -
Tra le lacrime cerco di spiegarle il reale meccanismo della faccenda.
- Ma dai, veramente? Io ho sempre creduto.... -
- Guarda che è verde. - indicandole il semaforo.
Ingrana la prima e ripartiamo.

mercoledì 29 dicembre 2010

L’ Olandese e Schopenhauer


                                               

Il monumento è tetro. Nonostante sia ben illuminato, trasmette una sensazione angosciosa, però i gradini non sono sporchi, c’ è poca gente nei paraggi ed il vino è ancora fresco.
Stappiamo la seconda bottiglia.
- Questo è un Pinot  di Pinot. - annuncia, trionfante, Federico.
- Ottimo. - replico dopo una lunga sorsata. Passo la bottiglia a Marina.
L’ alcool accelera l ’euforia che mi attraversa le vene; sembriamo usciti da un racconto di Bukowski; lancio un’occhiata ad Antonella: pelliccetta bianca, gonnellina nera, tacchi a spillo... fa niente, lei neanche sa chi sia, C.B.; in compenso mi strappa la bottiglia di mano e tracanna un lungo sorso.
Marina la guarda preoccupata:
- Ti ricordi, vero, di essere astemia? -
- Per stasera farò un’eccezione! - tutta contenta, le gote già arrossate.
- Dobbiamo festeggiare la tua prossima assunzione! - sorridendomi.
- Ma quale assunzione, Antone’! -
Marina insiste:
- Ripensa a quelle rare volte che hai bevuto. -
Federico, al contrario, la incoraggia:
- Dai, che questo l ’ho trafugato dalla cantina di mio padre! - Probabilmente spera di allentarne le “difese”.
Lancio un’occhiata complice a Marina, che mi restituisce un sorriso malizioso.
Antonella comincia a ridacchiare; è difficile rintracciare il senso di quello che dice, perso tra le bollicine del “Pinot”.
La tentazione è veramente forte; mentre Federico prova affettuosi “approcci”, Marina ed io la incalziamo:
- Perché non ci racconti di quella volta che ti sei giocata a carte un ragazzo? -
Il sorriso di Federico è attraversato da una sottile tensione.
Antonella lancia un ‘ occhiata di traverso:
- Marina, glielo hai raccontato tu, vero? - fingendo di rimproverarla.
- Perché, invece, non gli hai detto dell’Olandese? -
- Di chi? - Sardonica, Marina chiede conferma.
- Ma si, non ti ricordi? Come si chiamava... Peter ... Soren...boh... comunque era bellissimo. - e giù un altro sorso. - ... si, stupendo. -
Il sorriso di Federico si fa sempre più “stretto”.
- Ma dai, raccontaci di quel tipo che ti sei giocata a carte! - la incito di nuovo.
- No, non è interessante. L’Olandese, piuttosto; ti ricordi Mari’: bello come il sole e anche colto; gli piaceva la musica classica. -
M’illumino! Marina mi ha già raccontato l’episodio: non me lo perderei per nulla al mondo:
- Ah, gli piaceva la musica classica, eh, e allora? -
Lei comincia a sghignazzare. Marina, infida e spietata, tace e aspetta.
- ...e così ci siamo ritrovati a parlare di musica; io non ci capisco molto, di musica classica, poi; però non potevo sfigurare: quando lui mi chiesto quali autori preferissi ho avuto un attimo di panico, poi mi sono ripresa, gli ho sfoderato un bel sorriso e: “Dunque, Beethoven, Mozart, e...Schopenhauer.” - e comincia a ridere a crepapelle.
Marina mi guarda, soddisfatta; io sono piegato sui gradini a tenermi la pancia; Federico ha una risatina di circostanza.





Antonella continua:
- Ed ero convinta, eh. Poi siamo tornate a casa, ci siamo messe a letto;
dopo un attimo riaccendo la luce sul comodino:
“A Mari’, ma chi era Schopenhauer?” -

mercoledì 22 dicembre 2010

Pennac




Quando un professore di lettere si mette a scrivere romanzi possono accadere due cose: o ci ammorba con sterili esercizi di stile (non tutti si chiamano Quenau) o
esprime il meglio di sé, cosa che in aula non gli è permesso.
Pennac rientra decisamente nella seconda categoria.
Fine ed intelligente pedagogo, raccontando storie, ci spiega cosa vuol dire “formare” i ragazzi e trasmettere la conoscenza. La trasmissione della conoscenza, in questi tempi molto “tecnici” e veloci, assume un ruolo fondamentale ed è sottovalutata.
Quando “la tribù Melaussène”, priva della TV, si ritrova unita, la sera, ad ascoltare le storie di Benjamin, ci riporta ad una “tradizione orale” ormai perduta.
Benjamin Melaussène deve mantenere uno stuolo di fratelli minori, ognuno con caratteristiche quantomeno particolari: Therese ha provate doti di veggenza, “il Piccolo” soffre di incubi, il cane Julius è epilettico…..
Di professione fa il “capro espiatorio” : geniale! L’intelligenza e la sensibilità di Ben lo inducono ad un’empatia verso il prossimo che non ha eguali.Il “nostro” viene a trovarsi sempre al centro di complicate situazioni poliziesche: bombaroli, serial killer, vecchietti drogati, maniaci di ogni genere. Per una serie di circostanze rocambolesche, da buon “capro espiatorio”, tutti gli indizi lo indicano come il colpevole. Da ciò nasce uno strano rapporto con il commissario di zona, uno “sbirro” stranamente intelligente, che, contro ogni evidenza, si convince dell’innocenza di Ben.
La famiglia Melaussène vive a Belleville, il quartiere arabo di Parigi e Ben (la cui madre è sempre in giro per il mondo con l’ultima “fiamma”) è stato “adottato” da
un gruppo di arabi che hanno un ristorante sotto casa. Il rapporto con Hadouch, Amar e gli altri ha qualcosa di “poetico” e Pennac ci offre un anacronistico esempio di “integrazione”. Ci regala uno spaccato della saggezza dell’Islam….ma questo è un altro discorso…..
Due parole meritano gli uomini del commissario Rabdomant: gli ispettori Van Thian e Pastor: il primo è Tonchinese, anziano, minuto e con una mira infallibile; l’altro è giovane, indossa dei larghi maglioni di lana su una faccia d’angelo, ed è famoso per gli interrogatori ai quali nessuno resiste: ha un metodo.
Dopo ogni interrogatorio, portato a termine con successo, Paster è “sfatto”, cadaverico e il vecchio collega gli racconta una barzelletta per “tirarlo su”.
Ed è con una di queste che termino il profilo.
“C’è un alpinista che cade, precipita, precipita. La corda si spezza e si attacca con la punta delle dita ad una piattaforma di granito coperta di ghiaccio, sotto di lui: duemila metri di vuoto. Il tipo, dopo un attimo, con una vocina sottile, domanda:” C’è nessuno?” Niente. Ripete, più forte: ”C’è qualcuno?!”
Una voce profonda sorge dal nulla: “Si, ci sono io, Dio!”
L’alpinista aspetta, col cuore che batte e le dita congelate.
La voce riprende: “Se hai fiducia in me, molla quella fottuta piattaforma. Ti mando due angeli che ti prenderanno in pieno volo!”
Il picolo alpinista riflette un attimo, poi, nel silenzio di nuovo siderale, domanda: “C’è qualcun altro?”

domenica 19 dicembre 2010

Comunicazione

                                                    

- D’accordo, ciao papà. - riaggancio la cornetta.
Compongo un altro un numero.
Il barista continua a lanciarmi brevi ed ostili occhiate, mentre Marina mi sta dicendo che non riesce ad uscire di casa.
- Chiama i vigili del fuoco, oppure forza la serratura. -
- Si, scherza, scherza... E’ inutile non ci riesco! E’ già mezzogiorno e sono qui che devo ancora lavarmi i capelli, e sono senza shampoo, e... -
- Senti Marina, questa conversazione mi sembra senza sbocco. -
- Hai ragione. - E riaggancia.
Fisso la cornetta, perplesso; a volte è strana; io le voglio bene, ma certe volte questa donna è veramente strana.
Esco dal bar e vengo aggredito da un vento freddo; freddo ma secco. Mi piace.
Adoro questo clima, è una giornata fantastica: limpida come solo le giornate di fine Gennaio sanno esserlo.
E comunque sono incazzato. Senza motivo. Una rabbia assoluta, pura, cristallina come questa luce di mezzogiorno.
Penso che magari potrei andare a trovarla. le compro lo shampoo, sfondo la porta... a lei basta poco per essere contenta; no, troppo vento per arrivare fin là; inoltre la mia rabbia e la sua pseudo-depressione non raggiungerebbero nessun tipo di accordo.








Antonella mi sta dicendo che fra un’ora Federico ed il fratello saranno qui a prendere i mobili.
- Tutti e due!? Ma non posso, ti ho detto che avresti dovuto avvisarmi, per quell ’altro! -
- Ma io, il furgone, ce l’ho solo per oggi! Solo per oggi, capisci? Dopo non potrò più, 
  mai più! -                
- Dai, non essere così definitiva... -
Definitivo. Mi piace. Penso che dovrei cominciare ad usarlo più spesso, quest ’aggettivo.
Continuo a ripetermelo, pronunciandolo internamente: DE-FI-NI-TI-VO. Bello. E’ efficace, fluido; le sillabe scorrono fuori che è un piacere. Definitivo.
Fa molto “minimalista”.
Intanto Antonella sta continuando a parlare; “rientro” in quello che mi sta dicendo, anche se lo so già: mi ripete le stesse cose da oltre dieci minuti, ormai.
- Ma perché sei così definitiva? - le ripeto solo per assaporarne ancora il suono.
Sono soddisfatto; ormai non seguo più la conversazione, penso a come l’aver usato un termine così delizioso possa avermi, di colpo, risollevato il morale.

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Richiamo Marina.
Lei riprende a parlare come se non si fosse mai interrotta; semplicemente PROSEGUE:
- ... cazzo, è saltata la lampadina! -
- Che lampadina? -




- ... mi capita sempre così, ci credi? Da un momento all’altro TUMP! e le lampadine si      fulminano; è successa la stessa cosa con quella dei faretti... questa però la ricompro... -
- Cosa vuol dire, che sei... -
- ... al buio. Sono completamente al buio, ormai. Senti, non è che ti trovi a passare da un elettricista? -
- No! - E riaggancio con violenza.
Scuoto la testa: non è possibile...non è possibile...

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Richiamo papà:
- Ciao. -
- Oh, ciao. Allora: è per Lunedì, alle nove. -
- Va bene. -
- Mi raccomando, è un mio caro amico e non dovrebbero esserci problemi;  comunque, anche se è un colloquio informale, tu fatti vedere sveglio e volenteroso. -
SVEGLIO e VOLENTEROSO
- Ho capito, ma ti ha detto, in qualche modo, che dopo... -
- Non preoccuparti: fai un po' di pratica e poi ti assume, regolarmente.
   Mi raccomando, sii puntuale. Questa è un’occasione da non perdere. -
- O.K. Ciao. -

lunedì 13 dicembre 2010

Apocalittici e assonnati


Il suono petulante del citofono irrompe, ottuso, nel sogno, dileguandolo.
Imprecando mi alzo dal letto e vado a rispondere.
- Buon giorno, il signor Felici? - Il tono è forzatamente gioviale.
- Si. -
- Bene. Buongiorno, il mio nome è Rossano. -
ROSSANO?!
- Si.- Non so se ridere o piangere.
- Senta, avremo piacere di parlare un po’ con lei. -
- Parlare.... -
- Si, ma non vorremmo disturbarla, forse ha da fare. -
- Dormivo. - Sono le otto di Domenica.
- Oh, mi scusi per il disturbo, però potrebbe concederci dieci minuti per dirci cosa ne pensa della guerra delle malattie della delinquenza della droga dell’ambiente e se crede che dobbiamo rassegnarci oppure ha fiducia in una vita diversa... -
08.00 di Domenica e ROSSANO vuol sapere se ho fiducia in una vita diversa
- Si, insomma, lei crede che possa esserci una possibilità di salvezza per l’uomo, che possa essere felice? -
Potreste cominciare voi, evitando di rompere i coglioni al prossimo specie a quest’ora del mattino!
- Ascolta, Rossano, io stavo dormendo. -
- Ho capito e sono mortificato, ma non potrebbe dirmi se esiste, secondo lei, una possibilità di salvezza... -
- Sto cercando di dirti che non sono abbastanza lucido per affrontare l’argomento.-
- Beh, magari ripassiamo tra qualche giorno... -
- Si. Addio. - Torno a letto. 
Ale sbadiglia:
- Chi era? -
- Rossano. -
- Chi? -
- Te l’ho detto: ROSSANO! -
- E chi è Rossano?! -
- Cosa vuoi che ne sappia... -
- Ma insomma, chi era? Che voleva? -
- Una POSSIBILITÀ’ DI SALVEZZA. -
- Cosa? -
- Lascia stare; dormi. -

William Gibson

Al signor William Gibson dobbiamo tutti qualcosa.
Esistono autori che scrivono bei libri, alcuni che ci hanno dato capolavori, con personaggi entrati nel lessico quotidiano, a distanza di secoli. Poi ci sono alcuni che inventano, letteralmente, “mondi”, con regole proprie, personaggi propri, atmosfere proprie.
A Gibson dobbiamo termini quali cyberspazio, hacker, rete, microsoft (ebbene si!).
In un periodo in cui la fantascienza languiva, proponendoci logori duelli tra grandi astronavi, Imperi in procinto di crollare (al momento giusto), alieni insettiformi, ecco apparire “Neuromante”……e tutto cambia!
Niente alieni né viaggi interstellari. La vera guerra si combatte qui, sul nostro pianeta, in un futuro prossimo. L’arma, micidiale, che ci ritroviamo tutti tra le mani, è il PC, il campo di battaglia, la Rete.
Gli eroi di turno sono gli hackers, pirati informatici giovani, veloci, brillanti “cowboys” della consolle che riescono a violare qualsiasi database.
I “cattivi” vengono rappresentati dalle multinazionali con le loro agguerrite difese elettroniche.
I.C.E. sta per Intrusion Countermeasure Electronics ed è il peggior nemico dei cowboys.
Tra pochi anni collegarsi in Rete sarà un’esperienza omnisensoriale. Con un paio di cavetti da attaccarsi alle tempie saremo dentro di essa, nell’enorme flusso di informazioni, con tutto il nostro essere. Realtà Virtuale dunque, anche se tutto ciò che succede nel cyberspazio avrà effetti Reali nel fisico. Un ice può letteralmente bruciare il cervello dell’intruso.
Il mondo sarà diviso tra chi possiede informazioni e chi no. La merce più preziosa (ma a questo punto già ci siamo arrivati) è, appunto, l’ Informazione.
Gli eroi di Gibson sono mercenari al soldo ora dell’una ora dell’altra Compagnia, a seconda delle necessità. A volta il committente è la Yakuza, la potente mafia giapponese.
Quando non è collegato in Rete, il nostro cowboy è depresso e si muove in “agglomerati” metropolitani, dove l’atmosfera è sempre un po’ cupa, umida di smog, alla “Blade Runner”. Passa le serate in fumosi pub dove si ritrovano i “veterani” e si possono scoltare le loro incredibili imprese, alcune leggendarie.
In realtà Gibson non sta “inventando” proprio nulla, ma sta “semplicemente accelerando la linea di sviluppo del nostro presente, non riconoscendolo più come tale ma come passato prossimo”
Secondo Marshall McLuhan è il modo di comunicare che determina i cambiamenti epocali. La definizione “post industriale” non è più soddisfacente, ormai siamo entrati nell’era informatica e Gibson ne è il “cantore” più autorevole.
Tra entusiasti ed acritici apologeti come Nicolas Negrophonte e Cassandre apocalittiche come
Neil Postman, il “nostro” è un sereno osservatore che ci dice: “Signori, questo è ciò che ci aspetta, prendetene atto e preparate le contromosse.”.
William Gibson è nato nel 1948 e vive a Vancouver.
Il suo primo romanzo “Neuromante” è il manifesto cyberpunk, ha vinto il premio Hugo e Nebula, pubblicato dalla “Nord”.
Nella Mondadori potete trovare la raccolta di racconti ”La notte che bruciammo Chrome” (da Johnny Mnemonic è stato tratto un film).
“Giù nel cyberspazio” , “Monna Lisa Cyberpunk”, “Luce virtuale”, “Idoru”,  “American Acropolis”.

Buk


Cosa non si è detto di Charles Bukowski? Tutto ed il suo contrario.
Leggo da una quarta di copertina:”Pubblicò giovanissimo il suo primo racconto, ma fu talmente amareggiato dall’infinita serie di rifiuti che seguirono da divenire alcolista.”
Assurdo! Buk beveva  perché gli piaceva. Se mai è esistito qualcuno che se ne sia sempre veramente fregato dei giochini e delle mafiette editoriali, questo era lui.
Un vero outsider, coerente con sé stesso, lui scriveva “di” come viveva, semplicemente. Non ha mai ostentato nessun atteggiamento “bohemienne”, al contrario di tanti altri.
Non a caso, quando si parla di “beat generation”, il suo nome non compare mai.
E giustamente.
Senza nulla togliere ai grandi Keruack, Ginsberg, Ferlighetti etc., Bukowski era semplicemente un uomo che lottava ogni giorno per la sopravvivenza, tra bar malfamati e stanze di quart’ordine in affitto.
Scrivere della VITA, la vita REALE, gli veniva facile, per sua stessa ammissione
Ho amato Henry Chinaski ( lo pseudonimo di ogni racconto).
Ho amato lo scrittore, così autentico, nelle descrizioni, così “nudo e crudo”.
Ho amato un UOMO con un’anima immensa, di una sensibilità oltre ogni confine.
E’ stato tacciato di misoginia. Il solito equivoco di qualche critico impotente, o di qualche femminista analfabeta.
Lui AMAVA le donne come pochissimi uomini sanno fare. Le amava con dedizione e trasporto, con la passione che lo ha sempre contraddistinto; una passione tanto più VERA perché “fisica”.
E’ stato detto del suo scarso impegno politico-sociale.
Tutta la sua opera è centrata sugli emarginati, quelli reali; i tanti, troppi clochards che si barcamenano nelle metropoli. Lui ERA uno di loro e con loro condivideva difficoltà, sofferenza, emarginazione. Più di una volta si è lasciato andare a considerazioni sulla “condizione del genere umano” e, da buon individualista, ne ha tratto le logiche conseguenze: nessun “riscatto collettivo”, uno “status quo” solido e ben difeso, l’umana idiozia al fondo di tutto.
C.B. nacque ad Andernach (Germania) nel 1920, ci rimase fino all’età di tre anni, poi l’America.
“Storie di ordinaria follia”, “Compagno di sbronze”, “Taccuino di un vecchio porco”,
“Musica per organi caldi”, “Panino al prosciutto”, sono alcune raccolte di racconti che hanno scandalizzato tanti ed entusiasmato moltissimi, soprattutto in Europa.
“Post office”, “Factotum”, “Donne”, alcuni dei romanzi.
Da segnalare “Hollywood”, nel quale Buk “…non parla di sesso ed è pacificato, ma non per questo è meno abrasivo nel suo orrore per l’ingiustizia e la violenza…..” parole di fernanda Pivano alla quale dobbiamo la “scoperta italiana” del grande scrittore.
A tutto ciò vanno aggiunte le numerosissime raccolte di poesie.
Bukowski è morto nel marzo del 1994.